La vita è sogno, soltanto sogno, il sogno di un sogno (Edgar Allan Poe)

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Nostalgia canaglia

Non so se succeda anche ad altri, però la mia cartella immagini trabocca di fotografie, molte doppie o triple per via dei vari backup dai miei molti cellulari o dagli altri computer.
Mi sono messa quindi a ripulire la cartella, già ordinata per argomenti (famiglia, amici, Bolzano, Milano, altri luoghi in cui siamo stati etc), conservando solo le immagini migliori ed eliminando quelle con minor risoluzione.


“Blong”.


L’avviso sonoro del messenger di Facebook mi distrae dal compito appena intrapreso: una signorina mi scrive chiedendomi se in gioventù ho conosciuto M. C. quando ancora viveva nella mia Bolzano.

Rispondo di sì, e così ritrovo un amico della prima adolescenza, anzi più un fratello che un amico, in quanto essendo orfano di madre l’avevamo spesso a casa nostra. Poi essendosi trasferito con il padre in quel di Brescia, ci eravamo persi di vista ed erano quindi anni che non ci vedevamo. Lui non ha Facebook, ed è quindi la figlia (la signorina che mi ha contattato) che fa da intermediaria tra noi due. Un breve discorso, con la promessa di risentirci e rivederci presto, ed un attimo di magone, rivivendo i tempi passati.
Già che ci sono, tralascio per un poco l’operazione riordino e dò una veloce scorsa a Facebook, su una pagina che seguo con interesse. Tra i molti commenti ce n’è uno di un certo R. P., lo stesso nome di un amico d’infanzia, quando passavo le ferie estive dalla nonna. Mi incuriosisco e guardo il suo profilo, ma non è lui.Provo allora con “cerca”: una sfilza di persone si chiama in questo modo, troppe, però non desisto. Mi improvviso detective (?) e spulcio i vari profili. Scarto subito alcuni nominativi, troppo giovani o troppo vecchi, ma alla fine ce n’è uno che, in base ad alcuni parametri in mio possesso, potrebbe corrispondere alla persona da me cercata. Lascio un messaggio, corredato da una fotografia di due “scugnizzi ” di una decina d’anni nei pressi di Casertavecchia. E dopo poco tempo arriva la risposta…è proprio lui, e vedendo la fotografia si è anche emozionato. Ora non abita più in meridione, ma si è trasferito in Lombardia…Prometto di cercare altre fotografie e di mandargliele, cosa che, mi assicura, gli fa molto piacere.

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Così lascio il PC, prendo dallo stipo gli album ed inizio a sfogliare le vecchie foto in bianconero…ne ho trovate alcune dove siamo noi due assieme, un’altra dove ci sono anche i rispettivi genitori, sua sorella, mia nonna e la zia…qui ne posto solo un paio, ma solo di me, fatte sul terrazzino della casa dove abitavamo.

Sarà che quando l’età aumenta, ci si aggrappa maggiormente ai ricordi.

E la nostalgia mi assale…


La fisarmonica

Sabato, giorno di mercato.

Folla di persone che brulicano come insetti in un formicaio, spostandosi da un settore all’altro, esaminando abiti ed accessori oppure prodotti ortofrutticoli e specialità regionali.

Resto sempre sorpresa da come la gente si muova in maniera frenetica e si incroci senza mai scontrarsi negli stretti corridoi tra una bancarella e l’altra.

Ad un tratto, tra il brusio della folla, il suono di una fisarmonica.

Un uomo sulla quarantina, camicia a quadri, bermuda, piedi nudi infilati in un paio di sandali, gli occhi di quel celeste chiaro tipico delle popolazioni di etnia slava, la schiena appoggiata al muro nei pressi di un passaggio ed il berrettino per terra nel quale navigano pochi spiccioli, suona un motivo sconosciuto ma appassionante.

Di colpo, ritorno indietro nel tempo, quando ero bambina, ed i suonatori ambulanti passavano di cortile in cortile strimpellando motivetti popolari sui loro strumenti – fisarmoniche appunto, ma anche armoniche o violini – mentre le massaie si affacciavano ai balconi gettando loro alcune monetine che venivano raccolte da un ragazzetto che accompagnava gli adulti. Spesso c’era anche il classico omino con la gabbietta dalla quale un pappagallino porgeva il “pianeta della fortuna” con l’oroscopo ed i numeri da giocare al lotto, oppure un fogliettino con il testo delle canzonette allora in voga.

Qualche bambina seguendo la musica accennava a qualche passo di danza, tutti i piccoli interrompevano i loro svaghi – i giochi poveri di quel tempo, la corda, la palla, le biglie – per ascoltare i suonatori e scortarli nel loro girovagare tra i vari cortili.

Allora la fisarmonica era uno strumento che non mi piaceva, forse proprio a causa delle canzoncine popolari che suonavano, ed ho imparato a conoscerlo ed apprezzarlo molto tempo dopo, quando ho ascoltato i brani di Astor Piazzolla e di Richard Galliano, solo per citare i più noti, che eseguivano brani di tutt’altra levatura.

 


Shampoo

Non so perché, ma stamattina mi è venuta in mente nonna quando mi lavava i capelli. A volte gli scherzi della memoria non hanno nessuna giustificazione, e forse è meglio non indagare a fondo sulle cause che li provocano.
A Bolzano mia madre aveva sempre usato gli shampoo liquidi, quelli che non bruciavano gli occhi, ma in paese, all’emporio, vendevano solo lo shampoo Palmolive in polvere.
Forse l’avevo già scritto tempo fa che in casa di nonna non c’era acqua corrente: bisognava rifornirsi con i secchi alla fontanella in strada, un’acqua freschissima che proveniva dall’acquedotto di Ponte della Valle, che rifornisce anche le fontane ed i giochi d’acqua della Reggia di Caserta (oltretutto l’acquedotto è un’opera di notevole valore architettonico).

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Il brutto era che c’era pure una ripida scalinata per arrivare in casa, e quella fatica se la sobbarcava esclusivamente zia Anna.
Dicevo quindi dello shampoo.
Per i miei capelli biondi c’era la versione alla camomilla, più delicata dicevano, ma la pappetta
schiumosa che mi veniva applicata in testa bruciava da morire se entrava negli occhi, cosa che succedeva quasi sempre. (Su internet ho trovato però solo l’immagine dello shampoo “per bruna” valido per due “lavature”).

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Poi lo sciacquo, tramite brocche di acqua tiepida ed infine l’asciugatura. Niente phon, ma un’energica strofinata con un asciugamano ruvido e poi, per completare l’opera, al sole, in terrazzo, seduta sulla sedia a dondolo a leggere Topolino, l’unica gioia di questa operazione.

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Pure il bagno era un problema: tinozza di zinco – quella per il bucato – saponetta sempre Palmolive di colore verdastro, ma almeno in questo caso gli occhi non bruciavano, ma la pelle si arrossava ogni volta: altro che le linee cosmetiche per baby che ci sono oggigiorno. Come facessero a denominarlo “il sapone della cura di bellezza resta un mistero, almeno per me.

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Eppure sono sopravvissuta (:)) a tutte queste torture senza aver riportato nessun danno.
Però spesso mi sono domandata se la copiosa perdita di capelli che ad un certo punto aveva afflitto la zia non fosse dovuta all’uso di quello shampoo…


Inviato dal Veloce promemoria


L’albero

Sono nata e cresciuta in una casa dell’edilizia popolare e, a tutt’oggi, dal mio poggiolo vedo l’appartamento dove ho vissuto per circa 19 anni.

Allora era estrema periferia, attraversata la strada c’era solo una distesa di vigneti facenti parte del maso dove adesso sorge il mio condominio.

La mia stanza aveva ben due finestre. Una, a nord, dava sul cortile, l’altra, verso ovest, sulla strada. Da quest’ultima vedevo l’unico albero che allora cresceva sulla via, una robinia (molto simile all’acacia), che custodiva molti nidi, ma non ricordo di quali uccelli, passeri e merli probabilmente, però non ne sono certa.

Ma la robinia aveva un difetto: grosse radici nodose che, aumentando di anno in anno, avevano deformato il marciapiede, rendendolo gibboso ed inagibile, per di più in un tratto dove la parte pedonale si restringeva parecchio. Così, dopo non so quanti anni, in un giorno di aprile, l’albero è stato sacrificato. Una mattina degli operai della giardineria comunale prima l’hanno sfrondato, poi hanno segato in vari segmenti il tronco, infine hanno estirpato le radici… Ed è stato come se avessero estirpato un pezzo della mia infanzia.

Adesso il paesaggio è completamente cambiato. Dove c’erano i vigneti sono state costruite case, la strada è tutta alberata e resta solo quel tratto desolatamente vuoto. Pare che per riempirlo ci debbano piantare un ibisco, piccolo e non ingombrante…   


estati dell’infanzia

Quelle estati passate dalla nonna…Mio padre aveva 40 giorni di licenza ed appena finito il mese in colonia, dove mi mandavano per sopperire alla mancanza di iodio della nostra zona ( e proprio da quel periodo data la mia antipatia per il mare), si partiva con il treno per il Sud, con un viaggio a dir poco estenuante.

Là ritrovavo compagni di gioco dai nomi inusuali per chi invece abita al settentrione, nomi come Filomena, Concetta, Agata, Assunta, Nicola, Gennaro, Raffaele, Domenico….

Rammento il terrazzo assolato, dove a volte passavo il pomeriggio ad osservare lunghe file di formiche nel loro andirivieni che terminava nelle crepe del muretto, dove immaginavo che avessero costruito chissà quali città. Sul terrazzo c’erano arbusti di oleandro e piante aromatiche, prima tra tutte il basilico, coltivate in parte in vasi di coccio, in parte in grosse latte che avevano contenuto delle conserve. Sempre sul terrazzino si ponevano le larghe tavole di legno per essiccare la polpa di pomodoro, coperta con garze per preservarla dalle mosche. Nel cortiletto da basso invece, con le spalle al pozzo, ed attorno ad un pentolone, le “commari” sbollentavano i pomodori a pera per poi imbottigliarli e conservarli per l’inverno.

Ricordo ancora le stanzette dove abitavamo: la camera da letto dove dormivamo nonna, zia ed io con i letti altissimi, dallo schienale intarsiato, l’armadio guardaroba decorato da bassorilievi di legno a forma di amorini con ghirlande di fiori e frutti, i comodini massicci, i cassettoni con un buon profumo di lavanda e, sopra, protette dalle campane di vetro, le statuette di non so quali santi. A lato, il catino con la brocca ed il porta asciugamani. Già, perché in casa non c’era acqua corrente e bisognava andarla a prendere nella viella, alla fontanella con i secchi, ma era sempre freschissima.

Poi c’era un bugigattolo dove era alloggiato il water, la cucina, con la stufa di maioliche di Sorrento, coloratissime, gialle azzurre e verdi, ed il forno. In fondo la saletta da pranzo con il tavolo tondo, le sedie impagliate tipo Vienna, la cristalliera con i servizi in bella mostra, ma quello che più mi piaceva era la scrivania che era stata del nonno (che non ho mai conosciuto), con la ribaltina ed un sacco di cassettini e tantissimi buchi di tarli.

I miei dormivano in una stanza separata, ma contigua, sempre sulla ringhiera del terrazzino. All’ora di merenda, niente dolci o panini con il prosciutto, come ero solita fare a casa, ma filoncino con i “puparuoli” arrostiti, con il loro buon sughetto misto all’olio, oppure i “friarielli”…Con i compagnetti poi inventavamo i giochi più strani, facevamo ad esempio gli alchimisti, andando a raccogliere erbe che crescevano sui muretti, per lo più mentuccia e capperi, che tritavamo preparando chissà quali misture. I campi non erano granché, perché la terra era arida e calcinata dal sole, ma qualcosa cresceva. In fondo alla viella infatti c’era il piccolo aranceto della nonna: erano arance bionde, piene di semi, però dolcissime e lei ogni inverno ce ne inviava uno scatolone (quando le poste funzionavano ancora!), aggiungendo a volte anche un mazzettino di viole avvolte prima nell’ovatta umida e poi nella stagnola, ed agli immancabili mostacciuoli. Assieme alle arance crescevano anche mandarini, nespole, e soprattutto fichi, e di quelli ne facevo vere scorpacciate. Di quei periodi ricordo anche il somarello, dolce e paziente, che a volte mi facevano cavalcare,  le partite a carte, scopa d’asso e scopone specialmente, dove Mimmo mi aveva insegnato a barare spudoratamente. All’inizio ricordo che avevo trovato difficoltà ad usare le carte napoletane, molto diverse dalle trentine che usavamo a casa. Le serate invece si trascorrevano facendo lunghe passeggiate da un paese all’altro o in visita ai parenti: preciso che in paese erano considerati tutti parenti, forse perché, come diceva ironicamente mio padre, discendiamo tutti da Adamo ed Eva. C’erano poi le gite che, data l’età e la mancanza di mezzi, si svolgevano in corriera: a Pompei, a Capua, a Mondragone, a Casertavecchia (davvero graziosa, abbarbicata sulla collina),  ma soprattutto nelle giornate molto calde alla Villa, ossia al magnifico Palazzo reale di Caserta, con i suoi stupendi giardini arricchiti da fontane e giochi d’acqua.

In quei periodi la scuola iniziava ancora il 1^ ottobre, quindi noi ci fermavamo fino alla fine di settembre. Prima si festeggiava l’onomastico del babbo, il 19 di settembre, festa grande per san Gennaro, ed allora la cucina diventava un campo di battaglia, con tutte e 3 le donne che cucinavano (mamma, nonna e zia), per celebrare degnamente la ricorrenza, perché nonna teneva maggiormente all’onomastico che al compleanno di mio padre. Ma la festa più attesa da noi ragazzi era il 29 settembre, san Michele, patrono del paese, che veniva ricordato con processione alla mattina, ma alla sera c’erano luminarie, canzoni e fuochi d’artificio, quasi una piccola Piedigrotta.

Il giorno seguente purtroppo si preparavano i bagagli per il ritorno al nord…e le vacanze così erano finite, ma ci ripromettevamo sempre di ritrovarci l’anno seguente….


Natale……………………………

Ridatemi i Natali della mia infanzia…
Non sono affatto religiosa, quindi  considero Natale solo come una festa della famiglia, però rivorrei tanto  i Natali di una volta con poche cose, ma molto più sentiti. Con l’albero vero, magari  un poco storto e spelacchiato e  le fragili palline di vetro multicolori, che ogni anno aumentavano di una o due unità, tra i quali l’uccellino con la coda di piume vere ed il puntale sgargiante con l’angelo,  e non quelli finti con le decorazioni infrangibili e monocromatiche che tanto vanno di moda  adesso. Quando si preparava il presepe con il muschio vero e  le statuine di gesso, anche quelle incrementate di anno in anno, e non le “Made in China” di plastica piena di sbavature e facce imbambolate. Il Natale di quando il bottegaio sotto casa ti faceva un regalino per ringraziarti della fedeltà al suo negozio nel corso dell’anno, mentre ora ci sono solo le povere cassiere stressate dei supermercati e dei grandi magazzini. Ora qui da me c’è il Mercatino, puro prodotto del consumismo odierno, tutta luce, ma niente anima, portatore di fiumane di folla e nuvole di smog. Un tempo  c’era ancora la cultura dell’attesa del Natale, mentre oggi i negozi propongono  le strenne già mesi prima. Si intrecciava la corona dell’avvento, con le quattro candele rosse da accendere una alla volta nelle 4 settimane antecedenti il Natale, ed il calendario i n cartoncino con le finestrelle da aprire giorno per giorno, contenenti solo immagini in tema e non cioccolatini o gadget vari. Rivoglio le letterine da inviare a Babbo Natale, -(quello con la zimarra, e non con i pantaloni tipo CocaCola)- piene di brillantini e con le righine uso  quaderno di scuola, dove elencare le piccole cose che si desideravano allora, e non i videogiochi che oggi i bambini pretendono. E per favore, compriamo il panettone, non quello elaborato e farcito di creme, ma quello classico, con l’uvetta ed i canditi, che, se non graditi, venivano tolti pazientemente.
Forse sarà una questione di età…ma comincio a dire “Ai miei tempi”…quando le cose erano migliori…..