La vita è sogno, soltanto sogno, il sogno di un sogno (Edgar Allan Poe)

Archivio per 18 febbraio 2017

Foglie morte

Chi eravamo ?
Eravamo due o due forme di uno ?
Non lo sapevamo né ce lo chiedevamo: un sole vago doveva esserci, dato che nella foresta non era notte.
Una vaga fine doveva esserci, dato che camminavamo.
Un mondo qualsiasi doveva esserci, dato che c’era la foresta.
Noi, comunque, eravamo estranei a ciò che fosse o potesse essere, eterni camminatori all’unisono su foglie morte, ascoltatori anonimi e impossibili di foglie cadenti.
Niente di più.

Fernando Pessoa

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La madre esemplare

Gira sul web la lettera che un uomo, già tossico in gioventù, ha inviato al “Fatto quotidiano”, spiegando quanto sua madre gli sia stata vicino in quel  triste e brutto  periodo, recandosi (udite udite!) in farmacia per acquistare siringhe pulite affinché non si infettasse, accompagnandolo in auto a comprare le dosi, pagandole perfino. 

Drug syringe and cooked heroin on spoon

Drug syringe and cooked heroin on spoon

La lettera (*) è molto bella, con parole davvero “sentite” e commoventi e naturalmente gli elogi per questa mamma, messa in contrapposizione  a quella di Lavagna, si sprecano.
Madre esemplare, definita addirittura “sublime” (sic!)…
Eh no, cari signori, qui si rasenta l’ipocrisia.
La signora in questione è stata solo fortunata.

Se per caso il figlio fosse morto per overdose,  sareste tutti ad esecrare quella donna snaturata che, con le sue stesse mani, riforniva  il figlio dei mezzi per drogarsi. 
Poi quanti criticavano la madre di Lavagna perché il figlio si faceva le canne in quanto non poteva essere considerata una vera madre perché  adottiva e che quindi il ragazzo non trovava corrispondenza in famiglia, mi spieghino perché un figlio biologico con una madre tanto amorevole e comprensiva si faceva di eroina.
Ho notato inoltre
che tra quanti disprezzano la mamma di Lavagna si trovano molte persone favorevoli all’adozione di minori da parte di omosessuali. 
Decidetevi,   ma usando la coerenza.
Da parte mia,  continuo a rifiutare l’ipocrisia.

(*)

Ci ho messo tempo, tanto tempo a decidere se scrivere o meno queste poche righe sui fatti di Lavagna. Se ho deciso di farlo è un po’ perché sento che mi riguardano da vicino, da troppo vicino, un po’ perché mi provocano un dolore insopportabile e, scrivendone, mi illudo che diminuisca.
Ma dirò poche cose, le mie posizioni antiproibizioniste non sono un mistero per nessuno.
Vede, signora, non voglio farle la morale e nemmeno giudicarla. In un certo senso, scrivere queste righe mi dà pena e imbarazzo.
Che fosse stato o meno partorito dal suo ventre, la morte di un figlio è il dolore più immenso che possa capitarci. Merita il rispetto di chiunque, anche di chi, come me, trova quanto lei ha fatto incomprensibile, per certi versi orrendo e assolutamente innaturale.
Voglio solo raccontarle una breve storia: la mia.
Tra i 20 e i 28 anni io sono stato un ‘junkie’, ho provato, con sostanze ben più pericolose e devastati della cannabis, a distruggere la mia vita. Oggi so perché e non mette conto parlarne qua.
Ma per quasi 6 anni, dal momento in cui se ne è accorta, ogni giorno mia madre mi è stata vicina, mi permetteva di farlo in casa, mi comprava siringhe pulite che i farmacisti a me non avrebbero dato, mi accompagnava, senza mai dar segno di vergogna, al Sert per prendere le dosi di Metadone.
Soffriva, soffriva immensamente, soffriva senza posa, senza respiro, ma è stata là ogni giorno, sempre con la mano tesa verso di me, armata di pazienza. Ha aspettato. Oh quanto ha aspettato: che io tornassi vivo la sera, che capissi quanto grande era il suo dolore, che trovassi la voglia e il tempo per dimostrarle il mio amore, che capissi che stavo uccidendomi.
Lei aspettava e io fuggivo. Ma, quando tornavo, era là. Se stavo troppo male per trovarmi da solo una dose, si metteva in macchina con me, mi accompagnava, stava attenta a che guidassi senza imprudenze, subiva di incontrare con me quelli che sulla mia vita lucravano, li odiava, ovviamente, ma aspettava con me che arrivassero, li pagava, mi riaccompagnava a casa. Incredibile vero? Ma continuava ad aspettare e a parlarmi, a farmi sentire che non ero solo, che un filo, un esile filo tra me e la realtà era rimasto e che se mi fossi attaccato a quel filo, avrei potuto risalire la china, essere di nuovo libero, riacquistare il diritto e la voglia di realizzare i miei sogni, che erano anche i suoi. E infine ha vinto lei.
Io oggi ho 60 anni, sono vivo, non ho l’Aids, ho tutti i miei denti in bocca, scrivo poesie e le metto in musica, insegno a splendidi ragazzi, ho una famiglia normale e un bellissimo figlio e non ho mai più sentito il desiderio di tornare indietro. Mai.
Quando ho pubblicato il mio primo romanzo, l’ho dedicato a lei, perché mi aveva partorito due volte.
Mia madre non ha mai nemmeno pensato di denunciarmi, sapeva bene che a uccidermi non era quella sostanza, ma il dolore, la solitudine, lo sperdimento. E contro il dolore non c’è Guardia di Finanza che tenga. Non si può vietare il dolore. Con il dolore e il disagio, soprattutto con quello dei propri figli, bisogna farci i conti, mi creda.
Non è la droga che uccide i nostri figli, gentile signora, è questo nostro modo di vivere, di convivere, questa nostra incapacità di parlarci, toccarci, stare insieme, condividere, anche e soprattutto in famiglia.
Non è certo colpa sua, se noi anziani abbiamo così poco da dire e da insegnare ai giovani: vivono in un mondo totalmente diverso dal nostro, almeno quanto quello dei nostri nonni era sostanzialmente simile al nostro, quando avevamo la loro età.